Squid Game, la serie Netflix che sta spopolando in tutto il mondo, è solo l’ultimo successo di una lunga lista di produzioni sudcoreane che negli ultimi anni stanno conquistando sempre più pubblico
Che viviate di serie tv oppure siate solo vagamente a conoscenza di una cosa chiamata cinema, in questi giorni sicuramente non potrete non aver sentito parlare di Squid Game. Questa serie coreana, prodotta da Netflix e disponibile in streaming, è diventata in poco tempo un vero e proprio fenomeno virale, tanto da essere stata vista da ben 142 milioni di utenti nelle prime quattro settimane dall’uscita. Un successo del tutto inaspettato, dato che il regista ha dovuto aspettare 10 anni prima che qualcuno accettasse di finanziare il suo progetto, ma non certo il primo per le pellicole provenienti dalla Corea.
Un successo inaspettato
Un uomo divorziato e sommerso dai debiti ha la possibilità di vincere 45600000000 ₩ ad una gara dove i concorrenti devono partecipare ad una serie di giochi per bambini rivisitati in chiave sadica e assassina. Raccontata così la trama di Squid Game non sembra un granchè, men che meno la ricetta per un grande successo, ma qui si trova tutta l’abilità del regista e scrittore Hwang Dong-hyuk: prendere un’idea che sulla carta sembra tutto tranne che vincente e girarci attorno un vero e proprio dramma.
Squid Game, anche se le premesse sono del tutto inverosimili, si prende sul serio e riesce a costruire un’impalcatura tale da dare credibilità al tutto: la serie è fredda, macabra e ben più adulta di un fantasy alla Hunger Games, meno interessata all’intrattenimento rispetto alla Casa di carta. Qui c’è la volontà di costruire una metafora che metta lo spettatore a disagio, che gli faccia pensare che una simile follia sia, prima o poi, possibile. O, peggio, che stia già avvenendo nelle società in cui il capitalismo detta regole che non possono essere altro che ingiuste, pena la sua stessa sopravvivenza.
Una scrittura a più livelli quindi, dove a rendere giustizia a dialoghi interessanti e personaggi costruiti alla perfezione ci pensano gli attori con le loro performance. Ognuno di loro, infatti, ha una caratterizzazione e un ruolo talmente definito e ben inserito nella trama da non poter essere sostituito o cambiato con nessun altro volto, voce o tipo di personalità. Perfino gli antagonisti, silenziosi uomini mascherati, riescono a catturare subito l’attenzione dello spettatore grazie al loro design peculiare e ad una freddezza inquietante nell’eseguire gli ordini del capo, il Front Man.
Eppure non c’è nulla di originale in ciò che ci propone l’opera più vista di Netflix: il tema dei “giochi mortali” non è nuovo per il mercato asiatico e anche nel resto del mondo ci sono stati diversi esempi dello stesso filone. Anche dal punto di vista degli effetti speciali non c’è davvero nulla da segnalare, almeno per quanto riguarda l’innovazione. In sostanza con Squid Game dunque non ci troviamo di fronte a nulla di rivoluzionario sotto il profilo tecnico o artistico, ma ad una serie curata nei dettagli e che si propone ad un pubblico molto ampio, mescolando al suo interno più generi e messaggi.
Squid Game e la produzione coreana
Squid Game comunque non è certo il primo prodotto visivo made in Corea a trovare successo al di fuori del suo mercato di origine: sono molte infatti le proiezioni di origine coreana, tra film e serie tv, ad aver fatto breccia nel cuore degli spettatori di tutto il mondo. In generale possiamo dire che dagli anni 2000 in poi i registi sudcoreani hanno iniziato a colpire l’attenzione dell’intero pianeta con prodotti tanto disturbanti quanto accattivanti: fa scuola in questo Park Chan-wook, autore della trilogia composta da Mr. Vendetta, Old Boy e Lady Vendetta.
Col tempo questa corrente non ha fatto che rafforzarsi e ha prodotto pellicole di grande spessore. Di non molto tempo fa (parliamo di febbraio 2020) è il trionfo agli Oscar di Parasite, lungometraggio del regista Bong Joon-ho che parla dell’incontro-scontro tra due famiglie provenienti da ambienti sociali opposti. Il film ha conquistato prima Cannes e ha vinto poi ben quattro Oscar come miglior film internazionale, miglior film, miglior regia e miglior sceneggiatura originale: bottino niente male per una produzione non americana.
Passando invece al lato serie tv troviamo, sempre in casa Netflix, altri due esempi recenti del made in Corea: Sweet Home e Kingdom. Entrambe le serie riprendono il concetto alla base di Squid Game, mettendo i protagonisti in contesti assolutamente improbabili (il primo è ambientato in un futuro post-apocalittico e il secondo in un medioevo alternativo) per poi affrontare temi ben diversi da quelli che ci si aspetterebbe con premesse del genere. Il tutto senza dimenticare un montaggio e una fotografia di ottima fattura.
E forse proprio in questo contrasto tra un’estetica attraente e curata e una trama profonda e a tratti violenta risiede il segreto del successo di tutte queste produzioni provenienti dalla Corea: pur infatti ricercando una certa raffinatezza visiva esse non evitano di parlare anche di argomenti controversi come la disparità di classe o la soggettività della morale, al contrario di molte pellicole occidentali che tendono a essere molto più “edulcorate” su certe questioni per evitare qualsiasi tipo di attrito.
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